domenica 31 ottobre 2010

MATRIMONIO D'INFERNO, LEI: MI DAVA IL VOTO PER I LAVORI DOMESTICI

L'imposizione del marito geloso "Scrivi sul diario tutto ciò che fai"

Undici anni di matrimonio infernali tra insulti, scenate e divieti. Un calvario emerso in tribunale. L'uomo geloso in modo patologico pretendeva che la donna lo aggiornasse minuziosamente su tutto quello che faceva durante il giorno.  "Mi dava anche il voto per i lavori domestici..."

SARAH MARTINENGHI
Undici anni di matrimonio: undici anni di inferno. Controllata peggio che in carcere, costretta a subire il giudizio severo di un marito diffidente, le sue minacce, le sue continue violenze e scenate. Era un coniuge talmente geloso al punto che la obbligava a tenere un diario per aggiornarlo su tutto quello che faceva durante la giornata, e la sera poi lui le dava i voti, come a scuola, su come avesse portato a termine le faccende domestiche. Un calvario che è emerso in un'aula del tribunale, dove si discute il processo nei confronti di un torinese, Roberto F., 42 anni, agente di commercio, accusato dal pm Livia Locci di maltrattamenti, molestie, violenza privata.

Si erano uniti in matrimonio nel 1998, e da subito il rapporto non era stato dei più semplici. La moglie, che lavora in banca, all'inizio credeva che un po' di gelosia da parte del marito fosse un segno di amore nei suoi confronti. Roberto era sempre in giro per lavoro e così voleva sapere cosa facesse durante le sue giornate. Ma dopo poco l'insicurezza dell'uomo prese a diventare patologica. Ogni tanto la controllava a sorpresa, le mandava messaggini per sapere perché si trovasse in un posto e non in un altro. E allora fioccavano gli insulti, specie per le origini del sud della donna, alimentate da una forte ostilità mostrata dal marito nei confronti dei suoceri. Non voleva che lei incontrasse il padre, se doveva telefonare alla madre doveva chiedergli il permesso, ma una volta soltanto al giorno.

Menaggio, scuolabus lascia a piedi fratellini perché i genitori non hanno pagato il servizio

sabato 30 ottobre 2010
di Elena Rosselli

E' successo a Menaggio, in provincia di Como. L'autista, provvedimento comunale alla mano, li ha fatti scendere. Non è il primo caso di discriminazione dei bambini stranieri a causa delle inadempienze dei genitori. Ne sono accaduti anche a Brescia, Vicenza, Varese. Nel trevigiano, invece, un sindaco leghista ha scelto l'integrazione

La famiglia non ha i soldi per pagare lo scuolabus, così due bambini vengono lasciati a piedi. E’ successo a Menaggio, in provincia di Como, lo scorso 13 ottobre. L’episodio, raccontato oggi dal quotidiano comasco La Provincia, riguarda due fratellini, un maschio e una femmina, di origine maghrebina. A loro non è stata risparmiata l’umiliazione di dover scendere dal bus dopo essere saliti alla solita fermata di via Poletti. Con in mano il provvedimento comunale, lo stesso autista ha detto loro di non poterli caricare a bordo.
L’amministrazione, guidata da Alberto Bobba (Lista civica “Vivere Menaggio”) si è giustificata affermando di aver mandato a casa della famiglia un vigile per informarli di quello che sarebbe accaduto la mattina seguente. Né i genitori né i bambini però parlano italiano. Così all’indomani è accaduto il pasticcio. “C’era una pesante inadempienza economica – spiega a La Provincia l’assessore alla Cultura Fabrizio Visetti – duemila euro tra rette dell’asilo e servizio scuolabus”. Il nucleo familiare è conosciuto dai servizi sociali, che in passato hanno trovato una casa alla famiglia magrebina. “Più volte abbiamo chiesto al capofamiglia di saldare i suoi debiti – spiega sempre Visetti al quotidiano comasco – Il Comune gli ha anche scontato due terzi del debito”. Ora il papà ha pagato quello che doveva. Ma era necessario far scendere i bambini dallo scuolabus davanti a tutti i loro compagni? “Non sapevo dell’accaduto”, si giustifica l’assessore.
Quello di Menaggio non è l’unico episodio in cui vengono discriminati i bambini a causa delle inadempienze delle famiglie. L’episodio più conosciuto è quello di Adro, dove il sindaco Oscar Lancini nell’aprile scorso (quattro mesi prima di inaugurare la scuola con 700 simboli del Sole delle Alpi) aveva escluso dal servizio di mensa scolastica i figli (in larga parte immigrati) delle famiglie morose. A saldare il debito delle famiglie morose è un imprenditore del bresciano che, pur volendo rimanere anonimo, scrive e invia a tutti i giornali una lettera di fuoco per “risvegliare lo spirito di solidarietà dei concittadini”. Arrivano anche 700 euro dal Congo. A mandarli è un padre comboniano che, stupito del “livello di imbarbarimento del vivere comune”, afferma: “I bambini congolesi saranno fieri di un gesto simile”.
Ma i casi di bambini privati di servizi essenziali da amministrazioni a volte troppo zelanti si moltiplicano. A marzo del 2010 il Corriere del Veneto denuncia il caso della scuola di Montecchio superiore (Vicenza) che lascia a pane e acqua i figli di nove famiglie morose, sette straniere e due italiane. Una sorpresa per i bambini che, spinti dal dirigente scolastico Anna Maria Lucantoni, dividono con i meno “fortunati” il menù regolare: pasta alla zucca, hamburger, insalata e frutta. La giustificazione dell’amministrazione, retta da Lega e Pdl, è simile a quella della Giunta di Menaggio: “Abbiamo avvisato più volte del problema, appendendo anche cartelli in più lingue. E poi sono stati richiesti i pagamenti arretrati e la consegna dei moduli in molti modi – specifica l’assessore all’Istruzione di Montecchio Barbara Venturi al Corriere del Veneto – e abbiamo anche posticipato i tempi”.
Anche a Gerenzano (Varese) la mensa scolastica non è per tutti. Con un provvedimento, l’amministrazione comunale retta dal sindaco Silvano Innocente Garbelli della Lega Nord, esclude dalla mensa i figli dei genitori che non pagano il servizio. ”L’utente che accumulerà un debito di 40 euro – si legge nella circolare – non potrà più utilizzare il servizio di ristorazione e il genitore dovrà ritirare dall’istituto scolastico il proprio figlio durante il tempo mensa”. A maggio, il comune aveva distribuito “simbolicamente” per un giorno a due bambini, figli di genitori insolventi, panini imbottiti invece del regolare pasto. ”I debiti dei genitori hanno toccato quota 12mila euro – spiega l’assessore all’Istruzione Elena Galbiati – Vogliamo lanciare un segnale forte, chi non salda i debiti può portare suo figlio a mangiare a casa”.
Ma non tutti i casi raccontano di discriminazioni. A Tarzo, nel trevigiano, il 9 ottobre una giunta guidata da Lega, Pdl e Udc, ha stanziato un fondo di 10mila euro per pagare la retta dell’asilo alle famiglie che non si possono permettere la cifra. Il sindaco Gianangelo Bof, Lega Nord, spiega: ”Dare mille euro a un bambino di 3 anni mi costa meno che intervenire quando ne avrà 16-17 con problemi di delinquenza. Ci sono bambini che non parlano l’italiano. E se lo imparano prima di cominciare le elementari saranno tutti alla pari, facilitando così l’insegnamento”. Bof considera la sua ‘filosofia’ perfettamente compatibile con la Lega, ma non si sente l’anti-Adro, come è stato ribattezzato: ”Nella Lega ci sono diverse anime e io non giudico quello che fanno gli altri. Come ci ha insegnato Zaia nell’ultima scuola-quadri, essere leghista non vuol dire andare in giro con il Sole delle Alpi stampato in fronte, ma credere nel federalismo”. Per me i bambini non hanno nazionalità – conclude il sindaco che, cresciuto in Germania, sa cosa significa “sentirsi stranieri”. “La discriminante non può essere il colore dalla pelle o la forma degli occhi. Da bambino quando subisci una discriminazione non sai fartene una ragione, io lo so bene”
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/10/29/lo-scuolabus-lascia-a-piedi-due-fratellini-perche-i-genitori-non-hanno-pagato-il-servizio/74308/

Pedofilia Bassa Modenese, i Covezzi di nuovo a processo

Delfino Covezzi con la moglie Lorena Morselli (Foto Lolli)
Delfino Covezzi con la moglie Lorena Morselli (Foto Lolli)

Note di Roberta Lerici

Da notare che anche le parti civili hanno presentato ricorso, ovvero gli avvocati che rappresentano i figli dei coniugi Covezzi ormai divenuti maggiorenni.Il senatore Carlo Giovanardi si duole giustamente per la lunghezza dei processi in Italia, ma dovrebbe anche domandarsi come mai gli stessi figli dei coniugi Covezzi, che egli difende con tanto ardore, hanno presentato ricorso contro la sentenza di assoluzione dei loro genitori.

Covezzi, il processo non è finito

Dopo che a giugno erano stati assolti in Appello, i coniugi Covezzi, accusati di reati di pedofilia, dovranno affrontare un nuovo processo. La Procura generale di Bologna ha infatti impugnato la sentenza di secondo grado. Un processo iniziato 12 anni fa.

“E’ una doccia fredda, anche se i nostri legali ci avevano avvertito che poteva accadere”. Dalla Francia, dove ormai da anni si è trasferita, Lorena Morselli commenta con la voce spezzata dalle lacrime la decisione della Procura generale di Bologna di presentare ricorso in Cassazione contro la sentenza della Corte d’Appello di Bologna che, lo scorso giugno, aveva assolto lei e il marito dall’accusa di abusi sessuali sui loro figli. Una decisione che riapre un processo lungo e drammatico.

Il caso scoppiò infatti nel 1997, dopo che un bambino di sette anni raccontò episodi di abusi. Venne aperta un’inchiesta e dieci bambini vennero tolti alle rispettive famiglie. In primo grado 17 persone vennero condannate, tra loro anche don Giorgio Govoni, condannato a 14 anni di carcere e poi assolto post mortem dalla Corte d’Appello di Bologna. Nel 2002 i coniugi Covezzi erano stati condannati a 12 anni di carcere, ma assolti in secondo grado perché i giudici bolognesi avevano ritenuto non sufficienti le prove acquisite.

A presentare ricorso in Cassazione anche le parti civili che rappresentano i figli sottratti ai coniugi Covezzi, i tre dei quattro che hanno già raggiunto la maggiore età: “Non ce l’ho con loro – chiarisce subito Lorena Morselli – immagino che gli avranno spiegato che cos’è un giudice e che cos’è un procuratore ma nessuno mi ha mai detto come è stata spiegata a loro la sentenza di assoluzione e in che modo”. In Francia, in questi giorni, c’è anche Delfino Covezzi che ha raggiunto la moglie per le feste di Ognissanti: “Speravamo di avere ottenuto giustizia e invece il processo non è ancora finito”. Nei prossimi giorni i Covezzi incontreranno i loro avvocati – Paolo Petrella e Pier Francesco Rossi – per fare il punto alla luce del ricorso in Cassazione. “Una notizia che ci ha scombussolato in questi giorni di festa ma che non ci coglie di sorpresa. Era una cosa che ci aspettavamo, in una vicenda così complicata e delicata”. Così commenta oggi l’avvocato Rossi; per il collega Paolo Petrella “E’ un processo che dura da 12 anni e ancora non se ne vede la fine”. Parla di una “famiglia vittima di un sistema giudiziario feroce e ingiusto” il senatore Carlo Giovanardi, sottosegretario alla presidenza del consiglio.

viaemilia.net 31 ottobre 2010 di Sabrina Ronchetti

Modena: genitori assolti dall'accusa di pedofilia "Ma ci hanno tolto i figli"

I coniugi di Massa Finalese erano stati accusati di violenza sessuale su minori. Il dramma costò la vita a don Giorgio Govoni. Ora la Corte d'Appello li ha assolti completamente: ma intanto i loro figli sono stati affidati ad altri


Delfino Covezzi con la moglie Lorena Morselli (Foto Lolli)
Delfino Covezzi con la moglie Lorena Morselli (Foto Lolli)

Modena, 10 giugno 2010. Dodici anni vissuti lontano dai loro figli, otto dei quali da colpevoli. Oggi Delfino Covezzi e Lorena Morselli, i coniugi di Massa Finalese (Modena) accusati di aver commesso abusi sessuali sui loro quattro figli, vivono il loro primo giorno da innocenti. Ieri la corte d’Appello di Bologna li ha assolti perché il fatto non sussiste ribaltando la sentenza del Tribunale di Modena che in primo grado, nel 2002, li condannò a 12 anni. La loro storia fece il giro d’Italia perché marito e moglie, in un primo momento, furono accusati anche di riti satanici nei cimiteri della bassa Modenese. L’indagine, nata nel 1998 dal racconto di un bambino, coinvolse i parenti della coppia e anche un prete, don Giorgio Govoni, ‘assolto’ post mortem.

Da novembre di quell’anno Lorena e Delfino non vedono più i loro figli, oggi affidati ad altre famiglie e residenti in località segrete. Ieri in aula, per la prima volta, c’è stato solo qualche sguardo fugace: «Il verdetto del giudice è rimbalzato nel nostro cuore e le lacrime sono uscite in abbondanza — hanno detto marito e moglie dopo la sentenza — Soltanto un’ ora prima, e per anni, eravamo stati trattati ingiustamente da colpevoli, adesso siamo finalmente innocenti anche per la legge. Siamo al settimo cielo, ma confusi, come se vivessimo per la prima volta in vita nostra in un bellissimo sogno dopo anni da incubo. Preghiamo il Signore per i nostri figli. Cercheremo di contattarli — sottolinea papà Delfino — per chiarire le cose, nel pieno rispetto delle famiglie affidatarie, che non hanno colpa».

La coppia ha un altro figlio e per non perderlo Lorena Morselli si è trasferita in Francia, mentre il marito è rimasto ad abitare nel Modenese.


http://www.ilrestodelcarlino.it/cronaca/2010/06/10/343511-modena_genitori_assolti_dall_accusa.shtml


Provincia di Roma, bufera sul dirigente condannato per violenza e poi promosso



di Davide Desario

ROMA C’è chi chiede le dimissioni dalla Provincia di Roberto Del Signore, dirigente colpito da una condanna della Cassazione per violenza sessuale aggravata dall’abuso d’ufficio, e nominato a giugno vicedirettore generale. C’è chi pretende che si faccia da parte anche il direttore generale, Antonio Calicchia, che oltre a essere il promotore della discussa promozione ieri, sul Messaggero, si è fatto scappare alcune dichiarazioni discutibili («Non ha violentato nessuno. Ha solo tentato di dare un bacetto sul collo a una signorina»). E c’è chi chiama in causa, quale responsabile principale poiché il provvedimento porta la sua firma, il presidente della Provincia Nicola Zingaretti.

Il giorno successivo alla diffusione della notizia del dirigente della Provincia “promosso” a vicedirettore generale (dimessosi mercoledì 27) dopo aver avuto una condanna della Cassazione, la bufera su Palazzo Valentini si allarga. «Ci domandiamo quale sia, a questo punto, la credibilità di un’istituzione che a parole si schiera sempre contro la violenza sulle donne, che crea addirittura una struttura, come Solidea, con il compito di tutelarle da ogni forma di violenza, e poi nomina al proprio vertice un uomo con una condanna così grave sulle spalle - dice il primo firmatario dell’interrogazione scritta il vicepresidente del consiglio provinciale, Francesco Petrocchi, insieme al capogruppo Pdl, Andrea Simonelli - Se ci fosse un po’ di dignità e di rispetto per l’istituzione, Zingaretti farebbe bene a rassegnare le dimissioni».

Sulla questione è intervenuta dal Campidoglio anche Lavinia Mennuni, consigliera delegata per le Pari Opportunità: «Abbiamo letto con stupore le dichiarazioni del dg della Provincia, Antonio Calicchia, il quale corre a minimizzare una sentenza passata in giudicato per violenza sessuale - ha detto - È scandaloso e attendiamo che le donne del Pd, sempre pronte a difendere chi è vittima di violenza, chiedano a Zingaretti, solitamente prodigo di dichiarazioni e oggi stranamente silenzioso, di smentire il suo direttore generale che, a questo punto, deve rassegnare le dimissioni».

Calicchia ieri ha inviato al Messaggero una lettera di scuse per le sue parole. Mentre le donne del Pd nel tardo pomeriggio sono intervenute: «Le dichiarazioni rilasciate dal direttore generale della Provincia, Antonio Calicchia, e riportate dal quotidiano Il Messaggero sono davvero gravi, soprattutto in un momento in cui il tema della violenza sulle donne è purtroppo tristemente all’ordine del giorno - hanno detto i consiglieri provinciali del Pd Roberta Agostini e Flavia Leuci - Chiediamo perciò che le smentisca prontamente senza lasciare spazio a nessun’altra interpretazione. Non accettiamo però assolutamente lezioni dal centrodestra che proprio oggi è al centro di un nuovo scandalo a sfondo sessuale che coinvolge il premier». Marco Bertucci, consigliere provinciale Pdl, chiede che «Zingaretti riferisca con urgenza in aula».

Altra replica arriva dal consigliere del Pd Marco Palumbo: «Non possiamo accettare questo tipo di lezioni da un’area politica che nei comportamenti di suoi autorevoli esponenti non rappresenta di sicuro un esempio di rispetto per le donne».

Interviene, infine, anche il segretario nazionale de La Destra, Francesco Storace: «Ma se Berlusconi si deve dimettere per una presunta telefonata in questura, per la sinistra quale deve essere la sorte di Zingaretti, dopo la promozione del dirigente condannato per violenza sessuale, revocata solo dopo essere stata scoperta?»
il messaggero 31 ottobre 2010

Preti pedofili, sit-in vittime: contestato padre Lombardi

«Giù le mani dai bambini», «Il Papa protegge i preti pedofili», «Chiesa senza abusi»: questi alcuni dei cartelli che sono stati esposti dai partecipanti ad un sit-in delle vittime di abusi da parte di preti pedofili che si sta svolgendo a Castel Sant'Angelo. Nel corso della manifestazione è stato contestato padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana.

«Non c'è stato nessun problema e nessun incidente con i partecipanti alla manifestazione delle vittime della pedofilia davanti a Castel Sant'Angelo», ha cercato di chiarire il portavoce vaticano. «Semplicemente - ha tentato di spiegare il religioso - volevo salutare gli organizzatori, così mi sono avvicinato. C'erano i giornalisti e le televisioni ma i promotori dell'iniziativa non li ho visti, così sono tornato in ufficio alla Radio Vaticana, perché avevo degli impegni. Tutto qui: non è successo proprio nulla mentre ero lì».

«Il Papa faccia verità», ha fatto sapere Salvatore Domolo, ex prete e portavoce del gruppo di vittime di preti pedofili, sugli abusi sessuali subiti da bambini da parte di preti pedofili. «Ascolti le vittime dal basso e chieda direttamente a loro cosa fare», perché in questo scandalo «le vittime sono state completamente dimenticate, si è parlato solo di preti pedofili e Chiesa».
Domolo non pensa che per riparare ai danni subiti da queste persone la soluzione sia un incontro voluto dal Papa perchè, sostiene, «sarebbe solo un altro abuso, messo in atto per difendere l'immagine della Chiesa».
Piuttosto la Chiesa dovrebbe mettersi «a servizio del popolo, abbandonare l'intento di difendere Dio per difendere il potere» e aiutare le vittime nella ricerca della verità.

Domolo ha partecipato all'incontro mondiale organizzato a Roma dall'associazione "Survivor's voice" per tutte le vittime di abusi compiuti da «uomini di Chiesa». «Questo evento - ha detto a margine di un incontro con la stampa prima del sit a Castel Sant'Angelo - avrebbe dovuto organizzarlo la Chiesa». E tra le altre cose, «essendo ricca e strapotente, potrebbe anche mettere a disposizione dell'opinione pubblica un'equipe di esperti, che una volta preso a cuore il tema della pedofilia, insegnerebbe a prevenirlo e curerebbe i pedofili». Ma la «vera soluzione», secondo Domolo, per arginare il fenomeno è «la rivisitazione del tema della sessualità, come assoluto valore dell'uomo. La Chiesa lo rilegge come un disvalore, ha una visione drammaticamente sporca della sessualità che porta alla perversione». Infine, Domolo mette in guardia le famiglie, invitandole a «non mandare tutti i giorni tutto il tempo i figli in oratorio: anche il prete che ha abusato di me era considerato un santo».

l'unità 31 ottobre 2010

"Io, assalita dai volontari per la vita mentre andavo in clinica a abortire"

"Io, assalita dai volontari per la vita  mentre andavo in clinica a abortire"

La testimonianza di Maria: "Non fateli entrare in ospedale. C'era anche un uomo in camice che mi ha dato dell'assassina: è stato uno choc".
"Penso tutti i giorni al bimbo mai nato, ma serve più rispetto verso chi fa una simile scelta"
di SARA STRIPPOLI

"Ho abortito con la Ru486. A fine agosto sono andata al Sant'Anna per il controllo. Sul marciapiede di via Ventimiglia mi ha avvicinato una donna che stava volantinando per il Movimento per la vita e ha cominciato a dirmi se sapevo cosa succedeva in quel posto, quale luogo orrendo fosse, un abortificio. Ero lì per un controllo e non ero tranquilla, non avevo certo voglia di stare a sentire, le ho detto che ero in ospedale proprio per un aborto, che per una donna non era certo una scelta facile, che mi lasciasse in pace.

Ovviamente non sapeva che avevo già abortito, mi ha detto che potevano aiutarmi, sostenermi. L'uomo in camice bianco, un infermiere?, che stava dietro di lei e stava distribuendo volantini ha sentito quello che stavo dicendo e ha cominciato ad urlare che eravamo delle assassine, che le donne che abortiscono commettono un omicidio, sono malate di mente. Ho alzato la voce anch'io, gli ho detto che prima di ogni altra considerazione, da uomo non poteva capire cosa poteva provare una donna. Lui ha alzato la voce ancora di più, ha detto che avrei potuto partorire e poi far adottare mio figlio. Ero inorridita, ho tagliato corto e sono entrata. Quando sono uscita ha ricominciato. Un'esperienza sgradevolissima, che non dimenticherò". Parla Maria, 34 anni, impiegata. Ha deciso di raccontare questa storia perché, dice "leggo sui giornali dell'intenzione della Regione di portare in ospedale persone che vogliono convincerti che stai commettendo un omicidio. Sono allibita dall'idea che un uomo come quello, che peraltro portava il camice e diceva di avere tutte le competenze per poter parlare, possa essere uno di quelli che una ragazzina potrebbe trovarsi davanti, magari scambiato per una figura istituzionale. Uno choc".

In quella giornata di agosto in cui è andata al Sant'Anna per quel controllo, Maria ha chiesto ai medici che lavorano nel reparto Ivg, interruzioni di gravidanza, se sapevano cosa accadeva fuori: "Mi hanno confermato che spesso erano lì fuori a volantinare, che cercavano di non mettersi proprio davanti all'ingresso. Poi ho parlato con altre donne che stavano aspettando come me. Una aveva il volantino in mano, un'altra mi diceva che aveva abortito ma era consapevole di aver commesso un peccato. Ho provato una sensazione di angoscia, sono convinta che ogni donna in quelle condizioni scelga e sappia perfettamente che qualsiasi sia la decisione pagherà un prezzo".

Maria non nega di svegliarsi ogni mattina riflettendo su quel bambino che poteva nascere: "Ma non me la sono sentita, sarei stata da sola, non mi sentivo abbastanza forte. Credo però fermamente nella libertà di scelta, tutti gli aiuti possibili e nessun lavaggio del cervello di ispirazione religiosa". L'accoglienza nei consultori è stata ottima, racconta ancora "ho incontrato persone fantastiche con cui ho potuto anche parlare, che mi hanno spiegato in modo molto chiaro tutti gli effetti. Fra l'altro io ho problemi di salute che rappresentavano un rischio nel caso di aborto chirurgico. Per me la Ru486 era l'unica soluzione sicura".

Dopo questa esperienza Maria dice di essersi convinta che semmai è necessaria ancora maggiore attenzione nei confronti delle donne che abortiscono, che lo facciano con la pillola o con la chirurgia: "Credo che non si debba risparmiare sul personale, che semmai ci sarebbe bisogno di un'assistente sociale o di una psicologa, qualcuno che oltre agli aspetti sanitari chiariti molto bene dai medici, possa anche spiegare quali sono i possibili percorsi per una donna madre, gli eventuali sostegni istituzionali, gli aiuti concreti". Anche in ospedale si potrebbe offrire di più: un po' di personale in più per evitare l'eccessiva fretta, locali più adeguati, possibilmente lontani dai reparti dove i bambini nascono: "Penso che sia questa la strada, non certo la presenza inquietante di chi prima di offrirti il suo aiuto prova a convincerti, fra l'altro spesso in malo modo, che stai commettendo un peccato e non una scelta, comunque dolorosa, per la tua vita".

(la repubblica 25 ottobre 2010)

PEDOFILIA, PADRE ALBANESE RESTA IN CELLA: PER IL RIESAME E' PERICOLOSO

Per il Riesame è pericoloso, in arrivo nuove proteste albanesi

Pedofilia: il padre resta in cella Resta in carcere il padre albanese accusato di atti pedofilia nei confronti del figlio di 5 anni. L'ha deciso il Riesame di Bologna che ha respinto la richiesta di scarcerazione avanzata dai due difensori (Aldo Pardo e Giancarlo Pasquale) del 45enne. Un «no» secco che l'ordinanza «appoggia» su due motivazioni: la pericolosità sociale dell'indagato e il pericolo d'inquinamento delle prove. L'organo giudicante bolognese ha inoltre confermato gli esiti dell'inchiesta coordinata dal sostituto procuratore Maria Rita Pantani, ritenendo provato che non si tratti di baci sui genitali (come sostiene la difesa, facendo riferimento alle tradizioni albanesi), bensì di rapporti sessuali orali ad opera del padre sul figlio, con un'invasione della sfera sessuale del piccolo non tollerabile dall'ordinamento italiano anche se sulla vicenda dovessero avere un peso le consuetudini rurali albanesi. Il padre è in carcere dal 3 agosto scorso e per ottenere la liberazione i difensori potrebbero ora puntare su un'istanza in Cassazione. Da tempo la delicata vicenda è seguita con grande attenzione dalla comunità albanese a suon di manifestazioni di protesta non solo in Italia (già all'attivo due iniziative sia a Reggio che a Roma) ma anche in Albania. Una «pressione» che ha come punto di coagulo la Lega immigrati albanesi «Illiria». Già annunciate tre nuove iniziative di protesta: il 4 novembre a Tirana davanti all'ambasciata, due giorni dopo a Reggio (un presidio?) e a Roma il 13 novembre davanti al ministero degli Interni. (t.s.)

la gazzetta di reggio 30 ottobre 2010